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3. Prigionieri di guerra nelle “città dei morenti”

I pacchi dei cugini Schembari-Antoci, i disegni di Angelo Distefano, la memoria scomoda di Emanuele Di Stefano

La corrispondenza dei cugini ragusani Gioacchino Schembari e Ciccino Antoci, prigionieri rispettivamente a Mauthausen e a Langensalza è costellata da una attentissima contabilità sui pacchi arrivati o non arrivati. Riuscire a ricevere dei pacchi dalle famiglie voleva dire, infatti, la possibilità o meno di sopravvivenza. Nelle “città dei morenti”, così vennero chiamati i campi per prigionieri di guerra degli imperi centrali, si moriva, soprattutto, per la fame e per il freddo: l’impero austro-ungarico faceva fatica ad assistere con beni di prima necessità gli italiani prigionieri, che nei fatti erano stati abbandonati dallo Stato italiano, il quale li riteneva responsabili dell’onta della disfatta di Caporetto.
Particolarmente toccanti i disegni del vittoriese Angelo Distefano, anch’egli prigioniero: il nemico rappresentato non è quello che combatte sul fronte opposto ma la morte stessa.
Testimonianza di prigionia che ha un tono del tutto diverso è quella del ragusano Emanuele Di Stefano. Nel suo memoriale, oggi conservato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, si legge: «la memoria della prigionia è molto più triste e penosa di quella in trincea […]. L’angoscia della prigionia attiene all’anima perciò è più acuta e insopportabile».
Ricordiamo che quando i prigionieri ritornano in patria su di loro si stese un velo di silenzio.
Un accenno infine al vicino campo di internamento di Vittoria per Prigionieri austro ungarici. Quanti furono i prigionieri che complessivamente transitarono nel campo non è chiaro. Qualcuno ha scritto 18.000, altri 5.000. E’ più verosimile la seconda delle ipotesi. Pare che i morti siano stati 118. Sappiamo, per varie testimonianze, che venivano impiegati in lavori d’agricoltura e altro. 

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