Le colonnelle
di Laura Barone
Questa nota è stata precedentemente pubblicata su «RagusaOggi» il 23/9/2014.
Il Regime Fascista, suo malgrado, aveva dato un contributo all’evoluzione della condizione femminile soprattutto nel profondo sud. I padri, i fratelli, i mariti, non potevano più proibire alle donne di uscire quando era il Partito a chiamarle alle adunate del sabato o per le feste nazionali. In particolare di questa situazione beneficiarono le studentesse e le insegnanti di ogni ordine e grado.
Sin dall’ infanzia, grazie (si fa per dire) a un gerarca di nome Starace, maschi e femmine erano inquadrati in organizzazioni del regime con relative divise ed esercitazioni di marcia, parate, sfilate e attività sportive. I ruoli di comando erano affidati agli insegnanti.
Immaginatevi delle giovani maestre che si ritrovano nelle condizioni di poter viaggiare gratis per frequentare dei corsi di aggiornamento di educazione fisica e di cultura fascista a Roma, di poter avanzare nella carriera paramilitare di dirigente della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), di comandare manipoli, centurie e non so che altro, di poter vestire una divisa invernale o estiva con tanto di gradi in evidenza.
Insomma in poche parole mia madre e mia zia diventarono colonnelle e comandavano le centurie, mia madre si occupava delle giovani italiane, e inventò la squadra delle cicliste, mia zia si occupava delle piccole italiane, cioè delle ragazzine delle elementari.
Peccato che la quantità enorme di foto che le ritraevano in divisa e durante le adunate in Piazza Impero (oggi Piazza Libertà) sono state da loro stesse bruciate poco prima dello sbarco alleato per non finire nel campo di concentramento di Priolo insieme ai gerarchi fascisti.
Erano fasciste mia madre e mia zia? A mia madre questo fu chiesto durante una trasmissione di Rotonova in cui si parlava dell’inaugurazione del ponte nuovo e lei rispose: «Prendere la tessera del partito e impegnarsi nella GIL era obbligatorio se si voleva insegnare. Fare attività sportiva e frequentare i corsi di aggiornamento a Roma era gratificante per noi donne del Sud, costrette dai costumi tradizionali ad una vita ritirata. Certamente ci rendevamo conto di vivere in un regime dittatoriale e non abbiamo assolutamente condiviso l’alleanza con la Germania e la dichiarazione di guerra. Non abbiamo nessuna nostalgia di quell’epoca. E’ molto meglio vivere in democrazia».
Mio nonno, poi, non aveva mai nascosto la sua ostilità al regime e a Mussolini. In occasione del concordato del 1929 il suo commento fu: «Chi si corica con il cane, si alza con le pulci». Tra l’altro il regime gli aveva tolto, come dicevamo all’inizio, il controllo sulle figlie e a questo si ribellava di tanto in tanto esclamando: «Ricordatevi che in questa casa il duce sono io!»
Comunque, da quanto c’è dato sapere, la libertà di mugugno o di sarcasmo non mancava. Lo stesso Mussolini collezionava barzellette sul fascismo ed era capace di ironia.
Una volta mia zia si trovava a Roma per un’adunata di dirigenti della GIL. Tutte in divisa, schierate in perfetto ordine, ore e ore sotto il sole in attesa del duce.
Mia zia portava gli occhiali, a un certo punto una dirigente nazionale, con il grado corrispondente a quello di capitano, che era stata incaricata di verificare che tra le file tutto fosse a posto, le intimò di togliersi gli occhiali perché facevano l’effetto specchio, mia zia non obbedì e le mostrò i propri gradi (cioè «tu non mi puoi dare ordini!») e poi in siciliano le disse: «Ma pirchì? Vi scantati ca Mussolini s’allucia e cari ro niru?» cioè «Perché devo togliermi gli occhiali? Avete paura che il riflesso del sole possa abbagliare il duce e farlo cadere dal suo podio?» (alludendo al sistema di abbagliare gli uccellini con uno specchietto per farli cadere dal nido). Le più vicine a lei risero perché nelle adunate nazionali le persone erano schierate per regione di appartenenza, e quindi avevano capito la battuta, la dirigente nazionale scomparve di corsa forse convinta di essere capitata in mezzo a persone che non avevano paura nemmeno di Mussolini.
In un’altra circostanza la zia colonnella si vendicò, inconsapevolmente, di un personaggio che all’epoca terrorizzava le maestre, l’ispettore scolastico Falcidia (del quale si vociferava che era un antifascista, ma in quanto a metodi…).
Preparare le bambine per i saggi ginnici di fine anno era una fatica improba: schierarle in ordine di statura, abituarle a marciare, a essere sincrone nell’eseguire il “per il fila sinistra” e “per fila destra”, ”attenti”, “riposo” e così via.
Un giorno la zia colonnella si accorse che le cose non andavano bene, c’era qualcuno che sabotava l’esercitazione: dopo aver schierato le ragazzine in ordine di statura c’era qualcuna che appariva più alta o più bassa della prima impressione o nelle marce non era in sintonia con le altre. Finalmente la responsabile fu scoperta. Si divertiva ad alzarsi sulle punte per sembrare più alta e a non segnare il passo come le altre. La prassi dell’epoca in questi casi era un rimprovero all’indisciplinata e un sonoro ceffone.
I dirigenti presenti di ambo i sessi restarono di stucco. Qualcuno si fregò le mani con una certa cattiveria: «Vediamo adesso come se la cava la maestra La Cognata!»
Tutto questo non per il ceffone, che allora era considerato un legittimo mezzo di correzione, ma per un altro motivo.
Un gerarca si avvicinò alla zia.
«Lei sa di chi è figlia la bambina che ha schiaffeggiato»
«No, non lo so!»
«E’ la figlia dell’ispettore Falcidia!»
«Ah sì!».
Immediatamente, dinanzi a tutti, chiamò la bambina: «Falcidia, vieni qui. Naturalmente il tuo comportamento deplorevole di oggi sarà portato a conoscenza del Signor Ispettore!»
«Per l’amor del cielo – rispose la bambina in lacrime – papà non lo deve assolutamente sapere!»
«Allora per questa volta sei scusata, ma non si dovrà mai più ripetere quello che è accaduto oggi!»
Due piccioni con una fava. Si era permessa di far rigare dritto la figlia dell’ispettore che faceva rigare dritto le maestre, e si era assicurata che il padre non l’avrebbe mai saputo!