In campagna
Così, il massaro Rosario mi ha detto che mi dava magare da manciare. Io, che per manciare era molto bravo, ci ho detto che ci antava subito subito, però, prima voleva essere pagato anticipato, non con li lire 5, ma con li 2 tumila di crano, perché sapeva che mia madre farina dentra casa non ni aveva.
Anche Vincenzo Rabito come tanti suoi coetanei cominciò a lavorare in campagna fin da piccolo, “adduvato” alle dipendenze di un massaro. Le condizioni di vita, le consuetudini e l’organizzazione del lavoro nelle campagne del ragusano non mutarono significativamente lungo tutta la prima metà del Novecento. Secondo il censimento del 1934 lavorava nei campi quasi il 60% della popolazione attiva nella provincia, un dato confermato anche nel censimento del 1951. Dominante era la media proprietà imprenditrice; differenti le figure sociali impegnate nel lavoro agricolo: coltivatori diretti, massari, fittavoli, salariati, minori “adduvati”. Questi ultimi, presi “in affitto” già dall’età di sei, sette anni, venivano ingaggiati per tutto l’anno ed erano costretti a condizioni di lavoro durissime. In cambio, oltre al misero “canone” versato alla famiglia, il massaro si impegnava a sfamarli e ad allevarli.
Significativi mutamenti nella conduzione dei suoli furono introdotti a partire dal 1950 con la Riforma agraria, in seguito alla quale le proprietà superiori a 300 ettari, previo indennizzo ai proprietari, furono divise e assegnate in lotti o poderi ai contadini, con l’obiettivo di favorire la diffusione della piccola proprietà. Ancora all’inizio degli anni Sessanta gli occupati nelle campagne erano il 45% della popolazione attiva nel ragusano, un dato di oltre 15 punti superiore alla media nazionale.
Sulle dure condizioni di vita e di lavoro e sulle varie figure sociali si soffermano le testimonianze.